Il Pensiero di Protagora

Protagora è molto probabilmente il primo e più importante della cerchia dei sofisti, di cui ricordiamo anche Gorgia. Egli nacque ad Abdera nel 490 a.C. Fu probabilmente influenzato dal pensiero di Eraclito e soggiornò più volte ad Atene, centro culturale ed economico del tempo. Qui strinse anche una profonda amicizia con Pericle, il quale lo scelse per redigere le leggi della colonia di Turi nella Magna Grecia. Nonostante ciò, alcune delle sue idee furono considerate stravaganti e spregiudicate e fu costretto all’esilio per empietà. Egli fu uno dei primi, inoltre che distinse i generi dei nomi e i tempi verbali.

Homo Mensura di Protagora

La dottrina che contraddistingue Protagora fu sicuramente il relativismo gnoseologico o forse più correttamente un relativismo contestuale, ovvero dell’uomo come misura delle cose. Platone nel Teeteto riferendosi a Protagora, gli fa dire:

ciascuno di noi è misura delle cose che sono e delle cose che non sono, ma c’è un’enorme differenza tra l’uno e l’altro, e questo proprio perché a uno appaiono in un modo, a un altro in un altro”

(Teeteto, 166d). 

E’ chiaro che il pensiero di Protagora assume le sue radici nello scetticismo e nel relativismo, ma il suo pensiero ha un significato più profondo. Tale tesi non ha come referente solo il singolo individuo nella sua particolarità. La sua teoria è applicabile universalmente, in ogni tempo e luogo. Sarà tipica del singolo uomo, quando (ad esempio) dice che un cibo dolce per un qualsiasi uomo sarà dolce, mentre per il malato sembrerà amaro. Sarà, in tal modo, tipica di una comunità di individui e dell’uomo nella sua più ampia specificità.

Lasciamo qui ad una lettura più completa l’intero discorso cui Platone nel Teeteto attribuisce a Protagora:

“Io dico che la verità è esattamente come ho scritto: ciascuno di noi è misura delle cose che sono e delle cose che non sono, ma c’è un’enorme differenza tra l’uno e l’altro, e questo proprio perché a uno appaiono in un modo, a un altro in un altro.

E sono così lontano dal negare che esistano la sapienza e il sapiente, che anzi chiamo sapiente proprio quello che, se a uno di noi le cose appaiono e anche sono cattive, lo cambia e gliele fa apparire, e anche essere, buone. E tu, non (e) rifiutare il mio discorso giocando sulle parole, ma cerca di capire con chiarezza quel che voglio dire. Per esempio, ricorda ciò che dicevamo del malato, che per lui ciò che mangia sembra ed è amaro, mentre per chi sta bene è ed appare il contrario.

Ebbene: non bisogna decidere chi è più sapiente (167a), perché questo è impossibile, e nemmeno dire che il malato è ignorante perché ha una certa opinione, e il sano sapiente perché ne ha una diversa. Quel che bisogna fare è cambiare uno stato nell’altro, perché quello di salute è migliore. Così, anche nell’educazione: bisogna far passare da un modo di essere peggiore a un modo di essere migliore. Ora, quel cambiamento lo produce il medico, coi farmaci; questo il sofista, coi discorsi.

Relativismo

In effetti, nessuno mai riesce a far avere opinioni vere a uno che le ha false, perché uno non può pensare cose che per lui non esistono, o cose diverse dalle impressioni che ha, (b) perché queste sono per lui vere in ogni caso. Però, uno che, per una certa disposizione dell’anima, ha opinioni cattive, si può far sì che abbia una disposizione migliore, e quindi anche opinioni migliori: e sono queste che taluni per ignoranza dicono vere, e io dico semplicemente migliori di altre, ma più vere no.

E i sapienti, caro Socrate, ben lontano dal chiamarli ranocchi; anzi, li chiamo medici o agricoltori, […] Essi infatti introducono, (c) in quelli che si ammalano, al posto di sensazioni cattive, sensazioni buone e sane, non vere; allo stesso modo i retori, quelli buoni e sapienti, fanno sì che alle città sembrino giuste le cose buone invece che quelle cattive. Questo perché per una città è giusto e bello ciò che essa riconosce per tale; ma è il sapiente a far sì che tali appaiano non le cose cattive, ma quelle vantaggiose.

Per lo stesso motivo, anche il sofista che sia capace di educare in tal modo i suoi discepoli è sapiente (d) e merita da loro grandi compensi. E così alcuni sono più sapienti di altri, ma nessuno ha opinioni false; e tu devi accettare, voglia o no, di essere misura delle cose, perché quello che ho detto salva la mia dottrina” [Teeteto, Platone, (166d-167d)]

Il Mito di Prometeo (clicca per approfondire)

In un altro discorso di Platone che prende il nome del sofista, attribuisce a Protagora il famoso mito di Prometeo. Essa è un’antica teoria sulla nascita delle città. Si narra infatti che i fratelli Prometeo ed Epimeteo furono incaricati dagli dei di distribuire le varie doti a tutti gli esseri che popolavano la terra. Accadde però che, Epimeteo, non essendo un gran sapiente, diede tutte le qualità agli animali lasciando nudo e scalzo l’uomo.

Così, Prometeo, per rimediare all’errore, rubò l’abilità tecnica da Efesteo insieme al fuoco, per donarlo all’uomo. In tal modo l’uomo ottenne la sapienza ma non l’abilità politica. Così facendo, l’uomo sapeva pur vivere ma una volta che venivano fondate le città, esse perivano per la mancanza di giustizia. A tal punto, intervenne Zeus, che mandò Ermes per distribuire “aidos” e “dìke” all’umanità. Ovvero egli fece dono all’uomo del rispetto e della giustizia, ordinando di distribuirle a tutti:

«A tutti – rispose Zeus – e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. […] si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia»

Di tale mito ci sono state varie interpretazioni che si fondano con la necessità greca tipica dell’etica eudemonistica; del bisogno di giustizia tra gli uomini. Infatti la giustizia a differenza della sapienza è una virtù “orizzontale”, ovvero tesa alla relazione e alla convivenza tra gli uomini. La sapienza è una virtù riflessiva, che può sfociare nel desiderio di sopraffazione, che porta alle guerre e alla distruzione delle città.

Il mito si vuole fare portatore di un’idea di mediazione e di un ideale sociale e politico. Questo è fondato sulla virtù dell’aidos, del rispetto reciproco, contro la pleonexìa (sopraffazione), e della dìke, la difesa delle leggi.