Basile e la Gatta Cenerentola – tra fiaba e realtà

La “gatta cenerentola” di Basile è una delle più note fiabe in merito al racconto popolare di Cenerentola. Come è ben risaputo, essa trae le sue origini dalla popolare storia egiziana, citata per la prima volta da Erodoto. In occidente, oltre alla versione di Basile, la fiaba è conosciuta attraverso le rivisitazioni di Charles Perrault e dei Fratelli Grimm. Tra l’altro, nel 2017, la versione di Basile è stata riadattata per una versione cinematografica omonima “Gatta Cenerentola”, vincitrice di svariati premi.

L’autore: Giovan Battista Basile

Giovan Battista Basile è un intellettuale che ha operato per l’intero periodo di attività nella sua città natale: Napoli. Nasce intorno al 1575, quando il Regno di Napoli era sotto il dominio spagnolo. Nella sua biografia si trovano varie avventure militari, ma il suo ruolo sociale è legato a quello di funzionario di corte.
Scrisse vari testi poetici in volgare, ma la sua produzione più interessante è senz’altro quella in dialetto. Quest’ultima, pubblicata con lo pseudonimo di Abattutis, vide luce intorno al 1634, cioè due anni dopo la morte dell’autore. Si tratta di nove ecloghe Le Muse Napoletane, e della raccolta di fiabe Lu cunto de li cunti, della cui fa parte la “Gatta Cenerentola”. Più interessante quest’ultima dal punto di vista artistico. Essa si presenta come il racconto di cinquanta fiabe inserite in una cornice “Boccacciana” in cinque giornate. La raccolta fu poi chiamata anche Pentamerone.

Lu cunto de li cunti racconta in una riuscitissima cornice la storia della principessa Zoza, la quale aveva perso la capacità di ridere. Il riso le ritorna a seguito della caduta di una vecchia, la quale, indignata lancerà una maledizione contro la principessa. Da qui il pretesto per la narrazione di queste fiabe da parte di dieci vecchie orrende, dove, dietro una di queste, si nasconderà Zoza.

Già dalla cornice si può cogliere il gusto tutto fiabesco e meraviglioso del Basile. In quest’opera proprio il meraviglioso, nei suoi eccessi, si rivela come argomento scatenante il riso. Ma il repertorio di immagini viene narrato con una lingua spontanea e musicale: il dialetto napoletano. Tutte le fiabe, cornice compresa, sono scritte in dialetto.

Questo permette all’opera di velare, dietro la suggestiva vicenda fiabesca, qualcosa di estremamente reale. Basile si propone, tramite l’artificio della dissimulazione, di narrare in maniera critica la vita napoletana negli anni dell’occupazione spagnola. Evitando lo scontro frontale, l’intellettuale napoletano cerca trasversalmente di presentare tutte le tensioni che si animano in questo mondo.

La Gatta Cenerentola

La fiaba “Gatta Cenerentola” narra della vicenda di Zezolla. Essa trae spunto dal materiale tramandato oralmente che Basile, con gusto e spirito organizzativo, schematizza in una suggestiva fiaba, la Gatta Cenerentola.

Zezolla è figlia di un principe, il quale sceglie per lei una bravissima maestra di cucito. Succede però, che il principe sposa una donna molto scontrosa con Zezolla, e quest’ultima insieme alla propria maestra escogita un piano per causarle la morte. Deceduta la matrigna la giovane chiede insistentemente al padre di prendere in sposa la propria maestra, quest’ultimo fattosi ammaliare dalla figlia decide di farlo. La nuova matrigna dopo un breve periodo di dolcezza nei confronti della figliastra, scatena un odio incondizionato; ampliato dalla messa in scena di sei figlie tenute nascoste da questa donna. Da questo inizio della Gatta Cenerentola, la vicenda prenderà poi la piega della conosciuta fiaba di Cenerentola

L’elemento interessante della Gatta Cenerentola, aldilà della vicenda narrata, è la figura della protagonista. Essa differisce molto della Cenerentola che si è soliti conoscere. Infatti, Zezolla è una giovane consapevole dei propri mezzi che conosce gli artefici migliori per metterli in atto. Insieme alla maestra programma l’omicidio della propria matrigna e costringe poi il padre a sposare quest’ultima. Infine, non contenta neanche della seconda condizione, obbliga il padre a portarle il dono, che si rivelerà fondamentale per la vicenda, dalla Sardegna. Zezolla in questo modo si configura come causa ed effetto dei propri mali ma anche dei propri beni.

Proponiamo al lettore il testo integrale della Gatta Cenerentola di Basile:

Zezolla, istigata dalla maestra a uccidere la matrigna e credendo che quella, divenuta, per opera sua, moglie di suo padre, la tenga cara, è posta invece alla cucina. Ma, per virtù delle fate, dopo varie fortune, si guadagna per marito un re. Parvero statue gli ascoltatori a questo racconto della pulce e dettero una dichiaratoria di asinità al re stupidone, che, per un’inezia insulsa, mise a tanto rischio l’interesse del sangue e la successione dello stato.

Ma, avendo poi tutti turate le loro bocche, Antonella sturò la sua nel modo che segue: Sempre l’invidia, nel mare della malignità, ebbe in cambio di vesciche l’ernia; e, dove crede vedere altri annegati nel mare, si trova essa o sott’acqua o rotta a uno scoglio: come accadde a certe giovani invidiose, delle quali fo disegno di dirvi la storia.

C’era, dunque, una volta un principe vedovo, il quale aveva una figlia a lui tanto cara che non vedeva per altri occhi. Le aveva dato una maestra da cucire di prima riga, che le insegnava le catenelle, il punto in aria, le frange e le orlature, dimostrandole tanta affezione che non si potrebbe dire.

Ma, essendosi il padre riammogliato di fresco e avendo preso una rabbiosa, malvagia e indiavolata femmina, questa maledetta cominciò ad avere in odio la figliastra, facendole cère brusche, visi torti, occhiate di cipiglio, da darle il soprassalto per la paura. La povera fanciulla si lamentava sempre con la maestra dei maltrattamenti della matrigna, conchiudendo: «Oh Dio, e non potresti esser tu la mammina mia, tu che mi fai tanti vezzi e carezze?».

E tante volte le ripeté questa cantilena, che le mise una vespa nell’orecchio, sicché, accecata dal diavolo, la maestra finì col dirle: «Se vuoi fare a modo di questa testa matta, io ti sarò mamma e tu sarai la pupilla degli occhi miei». Stava per continuare in questo prologo, quando Zezolla (che così si chiamava la giovane) la interruppe: «Perdonami se ti rompo la parola in bocca. So che mi vuoi bene; perciò zitto e sufficit (basta così); insegnami l’arte, che io sono nuova: tu scrivi e io firmo». «Orsù! – replicò la maestra, – ascolta bene, apri gli orecchi, e godrai sempre pane bianco di fior di farina.

Quando tuo padre va fuori di casa, di’ alla tua matrigna che vuoi un vestito di quei vecchi; che stanno nel cassone grande del ripostiglio, per risparmiare questo che porti addosso. Essa, che ti vuol vedere tutta cenci e brandelli, aprirà il cassone e dirà: – Tieni il coperchio. – E tu, tenendolo, mentr’essa andrà rovistando là dentro, lascialo cader di colpo, che le fiaccherà il collo. Dopo di ciò, sai bene che tuo padre farebbe moneta falsa per amor tuo; e tu, quando egli ti carezza, pregalo di prendermi per moglie, ché, te beata, sarai la padrona della mia vita».

Udito il disegno, a Zezolla ogni ora parve mille anni; e, messo in atto punto per punto il consiglio della maestra, quando fu trascorso il tempo del lutto per la morte della matrigna, cominciò a toccare i tasti al padre affinché s’ammogliasse con la sua maestra. Dapprima, il principe prese la cosa in celia; ma tante volte Zezolla tirò di piatto, che, infine, colpì di punta, ed egli si piegò alle persuasioni della figliuola. Così si sposò con la maestra Carmosina, e si fece una festa grande.

Ora, mentre gli sposi stavano in gaudio, Zezolla si affacciò a un gaifo (terrazzino) della sua casa; e in quel punto una colombella volò sopra un muro e le disse: «Quando ti vien desio di qualche cosa, manda a dimandarla alla colombella delle fate dell’isola di Sardegna, ché tu l’avrai subito». Per cinque o sei giorni la nuova matrigna incensò con ogni sorta di carezze Zezolla, facendola sedere al miglior luogo della tavola, dandole i migliori bocconi e adornandola con le migliori vesti.

Ma, corso pochissimo tempo, mandò a monte e scordò affatto il servigio ricevuto (oh trista l’anima, che ha cattiva padrona!), e cominciò a mettere in iscranna sei figlie sue, che fin allora aveva tenute segrete; e tanto fece che il marito, presele in grazia, si lasciò cascar dal cuore la figlia sua propria. E Zezolla, scapita oggi, manca domani, finì col ridursi a tal punto che dalla camera passò alla cucina, dal baldacchino al focolare, dagli sfoggi di seta e oro agli strofinaccioli, dagli scettri agli spiedi. Né solo cangiò stato, ma anche nome, e non più Zezolla, ma fu chiamata «Gatta cenerentola».

Ora seguì che, dovendo il principe andare in Sardegna per cose necessarie al suo stato, prima di partire domandò a una a una, a Imperia, Calamita, Fiorella, Diamante, Colombina e Pascarella, che erano le sei figliastre, che cosa volevano che portasse loro al ritorno. E chi gli chiese un abito di lusso, chi galanterie pel capo, chi belletti per la faccia, chi giocattoli per passare il tempo; e chi una cosa e chi un’altra.

In ultimo, e quasi per dileggio, egli disse alla figlia: «E tu, che cosa vorresti?». Ed essa: «Nient’altro se non che mi raccomandi alla colomba delle fate, che mi mandi qualcosa; e, se ti dimentichi, che tu non possa andare né innanzi né indietro. Tieni bene a mente quel che ti dico: arma tua, manica tua».

Partì il principe, sbrigò le sue faccende in Sardegna, comprò quanto gli avevano chiesto le figliastre, e Zezolla gli uscì di mente. Ma, quando si fu imbarcato e già erano state spiegate le vele, non fu possibile far che il vascello si staccasse dal porto; pareva che ne fosse impedito dalla remora. Il padrone della nave, ch’era quasi disperato, si mise a dormire per la stanchezza, e in sogno gli apparve una fata, che gli annunziò: «Sai perché non potete più staccarvi dal porto? Perché il principe, che vien con voi, ha mancato alla promessa verso la figlia, ricordandosi di tutti, fuorché del sangue proprio».

Appena svegliato, il capitano raccontò il sogno al principe, che, confuso per la mancanza commessa, andò alla grotta delle fate, e, raccomandata loro la figliuola, le pregò di mandarle qualche dono. Ed ecco uscir fuori dalla spelonca una bella giovane, che pareva un gonfalone, e gli disse di ringraziar la figliuola della buona memoria, e che se la passasse lieta per amor suo. Con queste parole, gli porse un dattero, una zappa, un secchietto d’oro e un asciugatoio di seta; il dattero da esser piantato, e le altre cose per coltivarlo e curarlo.

Il principe, meravigliato di questo regalo, si accommiatò dalla fata, volgendosi al suo paese; dove, giunto, distribuì alle figliastre le cose che avevano desiderate, e in ultimo consegnò alla figlia il dono della fata. Zezolla, con giubilo grande da non stare nella pelle, piantò il dattero in un bel vaso; e mattina e sera lo zappettava, lo innaffiava e lo asciugava col tovagliuolo di seta. Con queste cure, il dattero crebbe in quattro giorni alla statura di una donna, e ne venne fuori una fata, che domandò alla fanciulla: «Che cosa desideri?» Zezolla rispose che desiderava uscir qualche volta di casa, e che le sorelle non lo sapessero.

Rispose la fata: «Ogni volta che ti piaccia, vieni alla pianta e le di’: Dattero mio dorato, con la zappetta d’oro t’ho zappato; con il secchietto d’oro, innaffiato; con la fascia di seta t’ho asciugato. Spoglia te e vesti me! Quando poi vorrai spogliarti, cangia l’ultimo verso e di’: – Spoglia me e vesti te!» Venne un giorno di festa, e le figliuole della maestra erano andate in processione fuor di casa, tutte spampanate, strigliate e imbiaccate, tutte nastrini, sonaglini e fronzellini, tutte fiori e odori, rose e cose.

Zezolla corse allora alla sua pianta, pronunziò le parole insegnatele dalla fata e subito fu posta in assetto di regina, sopra una chinea, con dodici paggi attillati e azzimati, e andò anche lei dove erano le sorelle, che non la riconobbero; ma si sentirono venir l’acquolina in bocca per le bellezze di questa vaga colomba. Volle fortuna che nello stesso luogo capitasse il re; che, alla vista della straordinaria bellezza di Zezolla, rimase incantato, e ordinò a un servitore suo più intrinseco che s’informasse nel miglior modo di quella bellissima creatura, chi fosse e dove abitasse.

Il servitore si mise subito a pedinarla. Ma essa, che s’accorse dell’agguato, gettò una manata di scudi ricci, che s’era fatti dare dal dattero a quest’effetto; e il servitore, acceso di brama a quei pezzi luccicanti, si scordò di seguire la chinea, fermandosi a raccogliere i denari. Ed essa di balzo entrò in casa, si spogliò rapidamente nel modo come la fata la aveva istruita; e sopraggiunsero poi le sei arpie delle sorelle, che, per pungerla e mortificarla, le descrissero a lungo le tante cose belle, che avevano viste alla festa.

Il servitore, intanto, era tornato al re e gli aveva raccontato il fatto degli scudi. Si adirò il re e con stizza grande gli disse che, per quattro vili monetuzze, aveva venduto il gusto suo, e che, per ogni conto, avesse procurato nella ventura festa di appurare chi fosse quella bella giovane, e dove s’annidasse così leggiadro uccello. Venne l’altra festa e le sorelle, uscendo tutte adorne e galanti, lasciarono la disprezzata Zezolla al focolare.

Ma immantinente essa corse al dattero, disse le parole solite, ed ecco proromperne una schiera di damigelle; chi con lo specchio, chi con la boccetta d’acqua di cucuzza, chi col ferro per arricciare, chi col pezzo di rossetto, chi col pettine, chi con gli spilli, chi con le vesti, chi con collane e pendenti. E tutte si misero attorno a lei, e la fecero bella come un sole, e la collocarono in un cocchio a sei cavalli, accompagnato da staffieri e paggi in livrea. E si recò al medesimo luogo dell’altra volta, e aggiunse meraviglia nel cuore delle sorelle e fuoco nel petto del re.

Anche questa volta, al ritorno, il servitore le andò dietro; ma essa, per non farsi arrivare, gettò una manata di perle e gioielli, che quel dabben uomo non poté non chinarsi a beccare, perché non erano cose da lasciar perdere; e così Zezolla ebbe tempo di ridursi a casa sua e spogliarsi conforme al solito. Tornò il servitore, tutto sbalordito, al re, che gli disse: «Per l’anima dei morti tuoi, se tu non mi ritrovi quella giovane, ti do una solenne bastonatura, e tanti calci nel sedere quanti hai peli alla barba!»

Al nuovo giorno di festa, e quando già le sorelle s’erano messe in via, Zezolla tornò al dattero; e ripetendo la canzone fatata, fu vestita superbamente e collocata in una carrozza d’oro con tanti servitori attorno, che pareva una cortigiana arrestata al pubblico passeggio e attorniata dagli sbirri. E, dopo aver eccitato la meraviglia e l’invidia delle sorelle, si partì, seguita dal servitore del re, che questa volta si cucì a filo doppio alla carrozza. Vedendo che sempre le era alle coste, Zezolla gridò: «Tocca, cocchiere!»; e la carrozza si mise in corsa con tanta furia, che a lei, in quell’agitazione, cadde dal piede la pianella, che non si poteva vedere cosa più ricca e gentile.

Il servitore, non potendo raggiunger la carrozza che ormai volava, raccattò la pianella e la portò al re, narrandogli quanto gli era accaduto. Il re la tolse tra le mani ed uscì in questi detti: «Se il fondamento è così bello, che sarà mai la casa? O bel candeliere, dove è stata infissa la candela che mi consuma! O treppiede della bella caldaia, dove bolle la mia vita! Bei sugheri, attaccati alla lenza d’amore, con la quale ha pescato quest’anima! Ecco, io vi abbraccio e vi stringo, e, se non posso giungere alla pianta, adoro le radici; se non posso attingere i capitelli, bacio le basi! Voi già foste ceppi di un bianco piede, e ora siete tagliuola d’un cuore addolorato.

Per virtù vostra, colei, che tiranneggia la mia vita, era alta un palmo e mezzo di più; e per voi cresce altrettanto in dolcezza questa mia vita, mentre vi guardo e vi possiedo!» Ciò detto, il re chiama lo scrivano. Comanda ai trombetti, e tu-tu-tu, fa gettare un bando che tutte le donne del paese vengano a una festa e a un banchetto che ha determinato di dare. Nel giorno stabilito, oh bene mio! quale masticatorio e quale fiera fu quella! Donde uscirono tante pastiere e casatelli? Gli stufati e le polpette? Donde i maccheroni e i graviuoli, che poteva saziarvisi un esercito intero?

Le femmine c’erano tutte e di ogni qualità, e nobili e ignobili, e ricche e pezzenti, e vecchie e giovani, e belle e brutte; e, poiché ebbero ben lavorato coi denti, il re, fatto il propizio, si mise a provare la pianella a una a una a tutte le invitate per vedere a chi di esse andasse a cappello e bene assestata, tanto che egli potesse dalla forma della pianella conoscer quella che andava cercando. Ma non trovò alcun piede a cui andasse a sesto, e fu sul punto di disperare.

Nondimeno, imposto generale silenzio, disse: «Tornate domani a far penitenza con me; ma, se mi volete bene, non lasciate nessuna femmina a casa, e sia quale sia». Parlò allora il principe: «Io ho una figlia, ma sta sempre a guardare il focolare, perché è una creatura disgraziata e dappoco, non meritevole di sedere dove mangiate voi». Replicò il re: «Questa sia a capo di lista, perché l’ho caro».

Così partirono, e il giorno dopo tornarono tutte, e, insieme con le figlie di Carmosina, Zezolla, la quale, come il re la vide, gli dié l’impressione di quella che desiderava; e nondimeno dissimulò. Ma, finito il desinare, si venne alla prova della pianella, che, non appena fu appressata al piede di Zezolla, si lanciò di per sé stessa, come il ferro corre alla calamita, a calzare quel cocco pinto d’Amore.

Il re allora strinse Zezolla tra le sue braccia, e, condottala sotto il suo baldacchino, le mise la corona sul capo, ordinando a tutti di farle inchini e riverenze come a loro regina. Le sorelle, livide d’invidia, non potendo reggere allo schianto dei loro cuori, filarono moge moge verso la casa della madre, confessando a lor dispetto che pazzo è chi contrasta con le stelle.

[G.B. Basile, Il Pentamerone ossia la fiaba delle fiabe, “Gatta Cenerentola”, trad. di B. Croce, Laterza, 1982]